venerdì 11 maggio 2018

Ascolta

"Gettami in viso la parola terribile.
Perché non vuoi udire?
Non senti che ogni tuo nervo contorto
urla come una tromba di vetro
l'amore è morto...
l'amore è morto...
ascolta
rispondimi senza mentire...
come due fosse
in viso ti si scavano gli occhi...
lo so che già consumato è l'amore.
Ormai
a più d'un segno vi riconosco la noia"


La consapevolezza che il grande amore non è più tale genera nel poeta un frenetico desiderio di guardare la realtà in faccia, di sentirsi dire ciò che lui ha ormai intuito e che vede rappresentato sul volto della donna amata. Il rapporto con Lilja Brik, cui la poesia è dedicata, attraversa fasi molto alterne e conflitti drammatici, che contribuiranno in modo significativo, insieme all'amarezza per la delusione politica, all'esito tragico della vita del giovane Vladimir Majakovskij.

Mio padre è stato per me l’assassino

“Mio padre è stato per me “l’assassino”;
fino ai vent’anni che l’ho conosciuto.
Allora ho visto ch’egli era un bambino,
e che il dono ch’io ho da lui l’ho avuto.
Aveva in volto il mio sguardo azzurrino,
un sorriso, in miseria, dolce e astuto.
Andò sempre pel mondo pellegrino;
più d’una donna l’ha amato e pasciuto.
Egli era gaio e leggero; mia madre
tutti sentiva della vita i pesi.
Di mano ei gli sfuggì come un pallone.
“Non somigliare – ammoniva – a tuo padre”:
ed io più tardi in me stesso lo intesi:
Eran due razze in antica tenzone.”


Il sonetto di Umberto Saba è compreso in una raccolta di quindici poesie nate con il titolo di Autobiografia e confluite poi ne Il canzoniere a partire dalla seconda edizione del 1945. Il poeta desiderava che la raccolta venisse letta come un unicum e suggerisce di iniziare proprio da questa poesia in quanto in essa si trova tutta condensata la sua storia familiare e razziale.

giovedì 10 maggio 2018

L'albatro

"Spesso, per divertirsi, i marinai
catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari,
indolenti compagni di viaggio delle navi
in lieve corsa sugli abissi amari.
L’hanno appena posato sulla tolda
e già il re dell’azzurro, maldestro e vergognoso,
pietosamente accanto a sé strascina
come fossero remi le grandi ali bianche.
Com’è fiacco e sinistro il viaggiatore alato!
E comico e brutto, lui prima così bello!
Chi gli mette una pipa sotto il becco,
chi imita, zoppicando, lo storpio che volava!
Il Poeta è come lui, principe delle nubi
che sta con l’uragano e ride degli arcieri;
esule in terra fra gli scherni, impediscono
che cammini le sue ali di gigante."

Questa poesia fa parte della raccolta I fiori del male di Charles Baudelaire, la cui prima edizione viene pubblicata nel giugno del 1857 e subito denunciata e sottoposta a sequestro per il suo contenuto trasgressivo. Dopo il processo, Baudelaire e gli editor vengono condannati per oltraggio alla pubblica morale e al buon costume e sono costretti ad eliminare dal volume ben sei poesie per la stessa ragione. La poesia L'albatro, inserita solo nell'edizione del 1861, nella sezione Spleen et Idéal, rappresenta l'enunciazione della contraddittoria condizione esistenziale del poeta, superiore agli altri esseri umani per sensibilità e capacità di visione, ma di fatto dolorosamente emarginato dai suoi contemporanei proprio a causa della sua diversità.

L'ultimo carro

"Prima che l’alba sfarfalli,
dentro un suono di sonagliere
l’ultimo carro a cavalli
passa, al grido del carrettiere.
Terribilmente giocondo
è questo suon di sonagliere
squillante nel buio mondo
al grido aiuh! del carrettiere.
Sveglia chi deve svegliare,
il can del giardino di rose,
il gallo che sa cantare,
le lavandaie, belle spose.
Entrando nella farina
sveglia il pane, fin dentro il forno,
squillasse in campi di brina,
di pane riempirebbe il mondo.
Passando a una casa gialla
che l’uomo dice inabitata
turba un’occulta farfalla
dentro un solaio addormentata.
Va il suo cavallo mancino
con una zampa chiotta chiotta:
sovra il lastrico, argentino
il cavallo manritto schiocca.
L’ultimo carro a cavalli
passa al grido del carrettiere,
con strepitosi sonagli,
avanti l’alba, in strade nere."



In questa poesia, pubblicata nel 1932, Carlo Betocchi descrive il passaggio di un carro che poco prima dell'alba attraversa un paese addormentato, rompendo il silenzio che avvolge la natura con le grida del conducente e il tintinnio delle sonagliere dei cavalli.


Anch'io

"Ho provato anch'io. 
È stata tutta una guerra
d'unghie. Ma ora so. Nessuno
potrà mai perforare
il muro della terra."


Nella raccolta Il muro della terra di Giorgio Caproni sono scomparse le città e quasi del tutto i riferimenti a luoghi reali; il poeta si aggira per un mondo incongruo e desolato e osserva in piena solitudine l'insensatezza dello sforzo umano di comprendere la realtà e dare un senso alla vita. Si interroga su grandi domande come l'assenza di Dio e su temi civili. Il muro della terra è un limite misterioso che blocca l'agire umano verso la conoscenza e la comprensione. L'esistenza umana è paragonata ad un duro lavoro, ad una guerra alla ricerca di un senso, senza risultato.
La poesia viene pubblicata nel 1974 in Italia

lunedì 23 aprile 2018

X Agosto

"San Lorenzo, io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
 
Ritornava una rondine al tetto:
l'uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de' suoi rondinini.
 
Ora è là, come in croce, che tende

quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
 
Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono…
 
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
 
E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!"


La poesia di Giovanni Pascoli pubblicata nel 1896 sulla rivista "Il Marzoco" è stata scritta per commemorare la morte del padre, assassinato da sconosciuti il 10 Agosto 1896, evento che viene posto in una relazione di parallelismo con l'uccisione di una rondine di ritorno al suo nido.

Solo et pensoso

“Solo et pensoso i piú deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio human l’arena stampi.

Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi:

sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.

Ma pur sí aspre vie né sí selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co-llui.”

Il sonetto XXXV del Canzoniere è un esempio del modo d’intendere il sentimento dell’amore come forza incontrollabile, pervasiva e totalizzante, al quale non è possibile sfuggire. Anche i rapporti umani ne vengono condizionati e compromessi in quanto il poeta, innamorato e tutto preso da questo sentimento, sente il bisogno di isolarsi e di ritirarsi nella più completa solitudine per proteggere il proprio sentire e non trovarsi esposto al giudizio degli altri. Francesco Petrarca coglie così un aspetto generale del comportamento umano, comune a tutte le persone sofferenti per amore. La ricerca della tuttavia, pur essendo una fuga dal mondo, non è un allontanarsi dall’amore, che non lascia mai libero il cuore dell’innamorato. 

Chi sono?

“Chi sono?
Son forse un poeta?
No, certo.
Non scrive che una parola, ben strana,
la penna dell’anima mia:
“follia”.
Son dunque un pittore?
Neanche.
Non ha che un colore
la tavolozza dell’anima mia:
“malinconia”.
Un musico, allora?
Nemmeno.
Non c’è che una nota
nella tastiera dell’anima mia:
“nostalgia”.
Son dunque… che cosa?
Io metto una lente
davanti al mio cuore
per farlo vedere alla gente.
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.”

La lirica appare per la prima volta nei Poemi (1909)  e successivamente viene scelta dell’autore per aprire l’edizione definitiva delle Poesie (1930), divenendo una sorta di dichiarazione di poetica. In essa Palazzeschi, rompendo con la tradizione, affronta in modo leggero e scherzoso il tema dell’identità del poeta e afferma la propria vocazione al riso e al divertimento, fino a definirsi saltimbanco.  La poesia in realtà può anche essere letta come un’espressione dello smarrimento dell’artista, che dietro la maschera autoironica cela il disagio suscitato da un contesto sociale che non gli riconosce più alcuna qualità superiore. 

Le piccole cose che amo di te

“Le piccole cose che amo di te
quel tuo sorriso un po’ lontano
il gesto lento della mano
con cui mi carezzi i capelli
e dici: vorrei averli anch’io così belli
e io dico: caro sei un po’ matto
e a letto
svegliarsi col tuo respiro vicino
e sul comodino
il giornale della sera
la tua caffettiera
che canta, in cucina
l’odore di pipa che fumi la mattina
il tuo profumo un po’ blasé
il tuo buffo gilet
le piccole cose che amo di te
Quel tuo sorriso strano
il gesto continuo della mano
con cui mi tocchi i capelli
e ripeti: vorrei averli anch’io così belli
e io dico: caro me l’hai già detto
e a letto
stare sveglia sentendo il tuo respiro
un po’ affannato
e sul comodino il bicarbonato
la tua caffettiera che sibila in cucina
l’odore di pipa anche la mattina
il tuo profumo un po’ demodé
le piccole cose che amo di te
Quel tuo sorriso beota
la mania idiota
di tirarmi i capelli
e dici: vorrei averli anchío così belli
e ti dico: cretino,
comprati un parrucchino!
e a letto stare sveglia a sentirti russare
e sul comodino
un tuo calzino
e la tua caffettiera che è esplosa finalmente, in cucina!
la pipa che impesta fin dalla mattina
il tuo profumo di scimpanzé
quell’orrendo gilet
le piccole cose che amo di te.”

 La trasformazione dell’amore in noia, monotonia della vita quotidiana, l’insofferenza per la persona con cui si condivide l’esistenza costituiscono un’esperienza molto frequente nella vita di coppia.  È certamente un passaggio doloroso e difficile da accettare: in questa lirica Stefano Benni lo presenta con toni ironici garbati, mettendo l’accento sul progressivo cambiamento di giudizio su persone cose.

venerdì 20 aprile 2018

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale



“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tutt’ora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scontri di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.”




https://www.google.it/amp/s/www.vanillamagazine.it/la-scala-in-mosaico-segreta-di-san-francisco/amp/




Questa lirica è una delle più note della raccolta Satura. Montale si rivolge alla moglie e ripercorre con lei il ricordo del loro lungo legame amoroso. Drusilla (la moglie) aveva una vista debole e portava dei vistosi occhiali, ma questo non le ha impedito di essere, all’interno della coppia, la persona più dotata di intuizione e di capacità di vedere la realtà delle cose, nonché di saper gestire la vita concreta e le necessità quotidiane. È stata perciò una presenza di assoluta positività e ora la sua assenza definitiva fa sentire al marito tutta la sua solitudine.




giovedì 5 aprile 2018

Padre se anche tu non fossi il mio

“Padre, se anche tu non fossi il mio
padre,se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso ugualmente t'amerei.
Che mi ricordo d'un mattino d'inverno
che la prima viola sull'opposto 
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla 
di casa uscisti e l'appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.

E di quell'altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia aveva fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
che avevi visto te inseguir la tua 
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l'attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l'avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo che eri il tu di prima.

Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t'amerei.”






Poesia pubblicata nel 1914 nella raccolta Pianissimo, è incentrata su un  ricordo d'infanzia dell'autore, il poeta ligure Camillo Sbarbaro, che rievoca con affetto e ammirazione la figura del padre.

                                                                              

martedì 13 marzo 2018

La storia della poesia

La poesia viene definita comunemente come una forma d'arte che crea, con la scelta e l'accostamento di parole secondo particolari leggi metriche un componimento fatto di frasi, dette versi, in cui il significato semantico si lega al suono musicale dei fonemi.
Ma come nasce la poesia?
Definire con parole note un qualcosa di così intimo come la poesia è impossibile, nonostante l’uomo sin dalla sua nascita ha cercato di trovare un modo per farlo, ma le sue origini quali sono? La poesia è nata prima della scrittura: le prime forme di poesia erano trasmesse oralmente. Successivamente fu accompagnata dalla lira, strumento musicale utilizzato a quell'epoca.
Nell'età romana la poesia si basava sull'alternanza tra sillabe lunghe e sillabe brevi: il metro più diffuso era l'esametro. Essa doveva essere letta scandendola rigorosamente a tempo. In Italia la poesia, nel periodo di Dante Alighieri e  Francesco Petrarca si afferma come mezzo di intrattenimento letterario e assume forma prevalentemente scritta.
Nel XIX secolo, la poesia si libera progressivamente dai vecchi moduli e compaiono sempre più frequentemente componimenti in versi sciolti, cioè che non seguono alcun tipo di schema e spesso non hanno nemmeno una rima.

Via via che la poesia si evolve, si libera da schemi obbligati per poi diventare forma pura d'espressione fino ai giorni nostri.